CRITICA
contributi critici sulla pittura di Nino De Luca Lorenzo
Canova, Sul
limite
Quattro viaggi per Nino De Luca Andrea Bonavoglia, Linee di terra La pittura di Nino De Luca (presentazione della mostra al MACRO di Roma, ottobre 2019) Livio Garbuglia, Sulla pittura di Nino De Luca Reinhard Pfingst, Il ciclo della "Famiglia" di Nino De Luca L'emotività strutturata nella pittura di Nino De Luca CRITICA contributi critici sulla pittura di Nino De Luca
La pittura di Nino De Luca appare costantemente diretta alla ricerca del limite, del confine quasi invisibile che separa il suolo dal cielo, il visibile dall?invisibile, l'astrazione dall'immagine, in una posizione incerta e ineluttabile dove lo spazio appare ridotto alle coordinate minimali di una rarefazione che tende alla dimensione dell'assoluto. Nino De Luca, infatti, è un artista rigoroso e concentrato che elabora la pittura con occhio inflessibile e con la volontà di scoprire la qualità nascosta del colore, la sostanza 'appartata' celata nella materia cromatica, rinchiusa nella sua fisicità e nella sua vita segreta, richiamata e sublimata dal gesto paziente e silenzioso del pittore. Nel
suo
itinerario, l'autore dialoga con la tradizione del paesaggio
classico e con la linea espressionista
e 'nordica'
di
Permeke e
Nolde, con il mistero della luce di Turner e con la grande
stagione
dell'informale di matrice naturalistica, trovando tuttavia
una
personale e autonoma formula espressiva in cui la pittura
appare
concentrata in grumi leggeri e palpitanti, in trame lievi e
appena
sussurrate dove l'incrocio dei segni e dei tratti di
pennello viene
declinato con raffinata e inflessibile severità e con
un'aspra
scelta di toni e di modulazioni.
I verdi e i blu, le terre e i grigi si arricchiscono quindi di un'essenza impalpabile, si racchiudono in fasce dalla geometria incerta e fluttuante, nel sistema circolatorio e nei muscoli di un possibile macrocosmo, di uno sterminato corpo attraversato dal nutrimento della sua linfa vitale. De Luca lavora allora sull'iconografia del paesaggio e del deserto, spostando la sua opera verso territori irreali, spazi disabitati o attraversati soltanto dalle presenze solitarie degli alberi o delle rugosità del suolo, in opere dominate dall'orizzonte, la cui costante e ricorrente presenza fonda l'intero sistema pittorico dell'artista. Questa linea immaginaria, che nella nostra percezione divide la dimensione terrena da quella celeste, il mondo dal firmamento, si trasforma dunque in una sorta di spartiacque visivo e simbolico per dipinti dove l'elemento iconico si apre verso la sua negazione, in una collocazione quasi paradossale dove l'immagine è annunciata, negata e riproposta all'interno della dimensione del vuoto e dell'azzeramento, nella sua stessa sparizione, e nella sua antitetica ricomparsa e riaffermazione. De Luca spinge così i suoi lidi fino al limite dello spazio del quadro, trascina le sue coste e i suoi campi fino al punto dove è ancora possibile distinguere la separazione con il cielo, conduce le sue sabbie e le sue arature verso il punto estremo della 'finestra' pittorica per dare ritmo e vita ai luoghi che vuole rappresentare senza descrivere, per donare un nuovo senso agli spazi di cui scorge profeticamente l'occulta qualità lirica, la poesia nascosta nel canto desolato di una terra dissolta nella sostanza ultraterrena della luce.
Ho camminato su sentieri di fuoco, ho superato montagne fiammeggianti, ho percorso strade ardenti per scendere fino alle tenebre della mia anima . Ho attraversato terre scure, ho incontrato pianure brune di fango indurito, terre cupe di terra nera senza erba né alberi, alla ricerca di una luce che non arrivava. Ho sognato nuvole turchesi di cieli al tramonto, riflessi di luna splendente nel vespro, soffi di vapore rispecchiati sull’acqua per scoprire i segni del cielo della sera. Mi sono immerso nel profondo degli oceani, ho congiunto i fili che uniscono il labirinto delle onde, ho calcolato nuove rotte sui mari desolati, e sulla tua traccia dipinta ho ritrovato infine la strada del ritorno.
La pittura di Nino De Luca oggi appartiene, per dirla in una sola parola, all'astrattismo o meglio a quella tendenza informale che pervade gran parte dell'arte contemporanea. Eppure, De Luca ha vissuto anche una fase figurativa, durante la quale ha prodotto la sua opera di massima visibilità, il grande polittico Deposizione con angeli, collocato dal 2018 nella Cattedrale di Avezzano dopo una lunga permanenza nella Basilica di Santa Francesca Romana di Roma. Ma in realtà non c'è affatto contraddizione in questo. Il compito del critico sarebbe di inquadrare un artista in una tendenza e scovarne allo stesso tempo affinità ed originalità; nel caso di De Luca la profonda suggestione che esercitano le sue tele, soprattutto per l'uso magistrale dei colori, genera nello spettatore una sorta di sospensione, per cui curiosamente non si cerca subito la rispondenza, ad esempio, tra titolo e immagine, ma si cerca piuttosto la corrispondenza tra l'immagine e le nostre aspettative. Non è l'antitesi astrattismo/realismo, non si tratta di catalogare o incasellare, perchè De Luca sembra scostarsi da molta ricerca contemporanea, lontano sicuramente dai clamori e dalle provocazioni di molti. Guardando De Luca, oggi, forse si pensa a Klee, che tuttavia gestiva nel millimetrico dettaglio i suoi disegni, forse si pensa a Rothko, che al contrario espandeva all'infinito la diluizione delle forme, ma sicuramente si arriva a Nolde, secondo tanti il più grande paesaggista del Novecento, quel Nolde che passò dalla presunta blasfemia delle immagini sacre al disegno fantastico delle nuvole sul Mare del Nord. La strada di De Luca parte da lì, da quell'idea che la pittura nasce sì da dentro, ma ancora e soprattutto dagli occhi; basta sentirlo descrivere i suoi quadri, determinati dalla visione di un istante e poi creati dalla memoria e dal pennello. Realtà e sogno allora, trasformazione del reale, ma soprattutto sintesi delle linee e dei colori. La linea d'orizzonte in De Luca è costante, anche quando si incurva o si flette, posta quasi secondo le regole classiche, al centro, o poco più in alto, o poco più in basso, a dividere e a calamitare tutto il resto sopra di sé. Linea d'orizzonte che indica la terra, il mare, il cielo, o un confine. A parer mio, linea di terra, come si dice nel disegno geometrico, quella linea che riporta al concreto la visione più semplice o astrusa. E, senza voler forzare le parole, sono fatti di terra gli orizzonti di De Luca. L'idea di infinito che segna l'orizzonte è tangibile, è spazio, è linea, è punto d'arrivo. Intorno, o sopra. o sotto, o accanto, i colori si stendono in vaste campiture non piatte, ma rese materiche e ruvide dai materiali usati sul fondo, come le garze. Nei paesaggi, orizzontali, ampi, aperti in una visione frontale, i colori spesso si accostano in varianti tonali; nelle composizioni libere, come immensi mosaici, i contrasti si accentuano e le linee scoprono una libertà maggiore, ma sempre vincolate e legate alla linea di terra che al centro del quadro crea insieme ordine e regola, libertà e poesia.
C'è
un episodio che vorrei
raccontare per aprire questa breve presentazione della mostra di Nino
De Luca: due anni fa a Roma c'è stata la 16ma edizione della
quadriennale e io e De Luca
siamo andati insieme a visitarla.
Devo dire che quella edizione non era un granché a differenza della precedente del 2008, ma non è questo il punto: mentre visitavamo le varie sale, in un angolo abbiamo notato per terra due bottigliette di Coca Cola e di Pepsi. Non c'era etichetta, ma poi le abbiamo viste fotografate anche nel catalogo, quindi facevano parte dell'esposizione. Ecco, quel tipo di opera d'arte, se possiamo dire così, non ha davvero niente a che fare con la pittura di De Luca. Si tratta in fondo ancora dello spirito di Duchamp che sorvola il Novecento e ci prende in giro, tutti. Attenzione, non ho nulla contro il Dadaismo e considero Duchamp l'artista più influente del xx secolo, ma allo stesso tempo credo che quel gigantesco colpo di scure che i dadaisti hanno dato alla concezione stessa e allo sviluppo della ricerca artistica abbia fatto il suo tempo. Lo ha fatto da almeno mezzo secolo, ma troppi artisti sembrano o fanno finta di non accorgersene. Quando la Pop Art ha utilizzato l'idea fondamentale di Duchamp - appropriarsi di manufatti altrui per costruire il proprio manufatto - è stata costruttiva, lavorando su quegli oggetti, manipolandoli, ripetendoli, comunque lavorandoci sopra. Ripeto la parola lavoro perché lì sta un punto importante, l'arte è soprattutto un lavoro, non a caso si dice opera d'arte. Le bottigliette o le scatole di scarpe o anche i detriti e i mattoni appoggiati per terra hanno ottenuto lo scopo previsto, di togliere all'arte l'eccesso di serietà e di arroganza, ma – lo ripeto - hanno fatto il loro tempo. Poco prima di Dada anche Kandinsky e Klee avevano distrutto il concetto di rappresentazione, dipingendo figure che nascevano dalle loro sensazioni interiori e non dal senso della vista. Le lezioni salutari dei dadaisti da una parte e di Kandinsky e Klee dall'altra furono capite dai surrealisti, e poi dopo la seconda guerra dagli espressionisti astratti, o meglio dagli informali. Il secondo dopoguerra ha ricostruito gran parte delle tendenze che si erano manifestate nella prima metà del Novecento, ad esempio la ricerca visiva, statica, geometrica, che propone in definitiva immagini nitide, equilibrate: i minimalisti. Poi abbiamo i figurativi quasi tradizionali che lavorano sull'immagine magari utilizzando la fotografia o il cinema. E ancora, gli astratti, che inventano le forme e i colori in modo irruento e spesso aggressivo. Tra i contemporanei, ho spesso indicato in due maestri tedeschi la sintesi della pittura contemporanea, Anselm Kiefer e Gerhard Richter. La furia e la passione di Kiefer, cupo, drammatico, commovente, si stemperano nella totale varietà delle scelte di Richter, che usa migliaia di colori, li compone secondo griglie oppure li lancia sulla tela. Se facciamo riferimento alle ricerche di Kiefer e Richter e naturalmente di tutti quelli che fanno pittura secondo quelle strade, possiamo capire meglio quello che sta facendo De Luca. Come i veri artisti, De Luca lavora, lavora in modo continuo, attento, faticoso, cerca nuove strade mentre segue in realtà un percorso coerente, che lo ha portato negli anni a scelte coerenti eppure estremamente varie. Il tema che De Luca ha portato al Macro è un tema politico oltre che pittorico. Dovendo scegliere, ha scelto il tema che dal 2014 porta avanti con lucidità e passione, legato alle tragedie dei profughi che attraversano i canali marini per arrivare in Italia. La tragedia di Lampedusa poteva essere non solo il tema di fondo ma anche il titolo di questa rassegna. De Luca aveva pensato all'inizio a "Porti aperti", che era un chiaro riferimento ai porti chiusi di Salvini, e la questione politica si sarebbe accentuata, diventando però a mio avviso troppo contingente. Poi si era pensato a "Omaggio al Mediterraneo", proprio perché è il mare il protagonista, che sta al centro dei quadri. Ma alla fine abbiamo pensato di riprendere il tema pittorico, "Profondi Blu", che riesce a includere due valori, quello del colore e quello della profondità del mare, dove appunto si sprofonda, e si annega. In qualche modo la bellezza della pittura sembra consegnare una consolazione ai drammi della vita. Il blu che domina gran parte della produzione di De Luca è allora duplice, e si rivela come chiave stessa della sua pittura. La bellezza del blu, la bellezza del mare, la bellezza del cielo, diventano materia artistica, ma alla bellezza non si affianca soltanto il senso della felicità: il blu profondo può essere anche una immagine funebre, un luogo mentale dove l'energia della vita trova la sua fine. Pochi mesi dopo la tragedia di Lampedusa, che resta tra le più gravi catastrofi degli ultimi decenni, De Luca decise di dedicare all'isola e al Mediterraneo un ciclo di piccoli quadri, una sequenza drammatica che elimina per una volta l'orizzonte e scende sott'acqua, laddove la bellezza viene sostituita dall'orrore dell'annegamento. L'omaggio al mare nostro di questa importante mostra di De Luca al MACRO di Roma ha una valenza politica chiara, che si ritrova non solo nella cronaca quotidiana ma in tutta la storia dell'Europa meridionale. Il grande storico francese Fernand Braudel scrisse: Benché sia vastissimo
rispetto alla velocità del passato, il Mediterraneo non si è mai rinchiuso
nella propria storia, ma ne ha rapidamente superato i confini: a Ovest verso
l'oceano Atlantico; a est attraverso il Vicino Oriente, che lo affascinerà per
secoli e secoli; a Mezzogiorno verso le sue plaghe desertiche, ben oltre la
linea dei compatti palmeti; a nord, verso le interminabili steppe eurasiatiche
che lambiscono il Mar Nero; ancora a nord verso l'Europa delle foreste, lenta a
svegliarsi, ben oltre il limite tradizionale, quasi sacrosanto, dell'olivo.
Non resta da sottolineare come e quanto oggi il Mediterraneo risulti diviso in vari mondi politicamente diversi che si affacciano sul cuore della storia europea, africana ed asiatica, mondi oggi purtroppo collegati più da tensioni e snervamenti che da alleanze e solidarietà, mondi in attesa di trovare o ritrovare una dimensione comune. Secondo Nino De Luca, l'arte può collaborare a ricostruire quella dimensione perduta, quella fondamentale unità delle coscienze, che ci rende umani.
Le creazioni pittoriche di Nino De Luca sorgono da una sostanza-contenuto, da un caos originario di lettura ragione-forza vitale, esse si modellano in strati crescenti come restanti esistenze e si illuminano di forme assunte. Le opere scandite con ritmi diversi, imbevute di atmosfere che si tingono dei colori del tempo e del segreto inconscio, formano un'unica entità inscindibile, intrisa di profondo significato all'ordine del rapporto istinto-natura. Nel degrado c'è il verde è la musica della nostra coscienza, la danza del nostro spirito, con cui non si accorda nessuna predica morale e nessun perbenismo. Ne deriva una grande forza passionale, latente, nella formula-immagine che il controllo fisico del corpo d'arte dispiega con apparente facilità. Impressioni, ricordi, vi sono mirabilmente fusi e unificati nella suggestiva riduzione all'essenziale del racconto filiazione-corpo-d'arte. Colline rosse animano con diversa tensione la grande scena in cui predominante è la sensazione di una calda atmosfera al sole di un destino umano indipendente e possibile.
Nei grandi temi, l'individuo distinto e la moltitudine anonima si sovrappongono in una sintesi superiore che abbraccia l'umanità intera nei valori universali. Così certamente accade nella realtà della famiglia. Beninteso, non nella sua astrazione concettuale che può sì contenere gli uomini tutti, ma non accedere a quel patrimonio di sentimenti e relazioni che presuppongono la presenza di persone in carne e ossa, distinte, non sostituibili in alcun modo con delle altre. La famiglia è di tutti, ma per essere vissuta appieno nel suo significato unificante e profondo richiede nuclei veri di individui unici. Dalla rappresentazione autentica di questa tematica complessa, condensata in un'estrema sintesi, scaturisce l'interesse per i cicli pittorici sulla famiglia di Nino De Luca. In verità poco più che schizzi e appunti di piccolo formato, realizzati con segni rapidi e pennellate veloci, seppur dai contorni netti, a tratti perfino monumentali, i gruppi composti da poche figure scure che si stagliano su fondi indistinti dalle tonalità per lo più terrose, colpiscono per la loro scarna essenzialità. Quei genitori, fratelli e figli stanno lì con sconcertante immediatezza, senza prese di posizione di alcun genere. Sono creature dalle quali emana un senso insieme di profonda appartenenza, di grande dignità e di pesante fatica; persone che, nel disincanto della cruda vita reale, sono comunque decise a vivere, a convivere, a non soccombere, a durare, a tramandare. Il modo in cui questa verità viene presentata, senza né ragionamenti, né sentimentalismi superflui, come sulla nuda roccia, è probabilmente tra i più giusti per parlare di sentimenti profondi senza mai intaccare quell'intimità che è il loro distintivo più autentico. Roma, Aprile 2008
La capacità di riflessione razionale è una delle più importanti caratteristiche della specie umana. Noi siamo uomini in quanto esseri almeno potenzialmente ragionevoli. Questa nostra facoltà, tuttavia, non agisce in maniera autonoma ma strettamente connessa alla nostra sfera emotiva. Per quanto la scienza esatta possa, all'interno delle proprie metodologie, prescindere dall'influenza emotiva e prendere in esame esclusivamente fatti, fenomeni e teorie che sono indagabili dalla sola ragione, la vita reale non è mai separabile dall'emotività e anzi spesso determinata più dalle emozioni che non dalla ragione. Lo studio, l'educazione, l'organizzazione individuale e collettiva dell'emotività, costituisce di conseguenza uno dei compiti principali che l'umanità è chiamata a svolgere. L'emotività, per quanto anch'essa possa essere oggetto di studi scientifici precisi, volti a comprenderne i meccanismi, le origini, le cause e gli effetti, conserva sempre una propria irrazionalità di fondo per cui la sua conoscenza reale, ovvero la percezione direttamente vissuta dagli individui, non è data dalla ricerca razionale scientifica e nemmeno filosofica, ma dall'esperienza affettiva, religiosa, amorosa, passionale, poetica e, non per ultimo, artistica. Se vogliamo dunque auspicare il dialogo emotivo all'interno di una società civile come il risultato non di una castrazione culturale, e neanche come l'indistinto trasbordare casuale in tutte le direzioni delle varie emotività personali, ma come una forma di educazione a una vita umana più completa, allora, nell'arte come nella società più in generale, l'autenticità emotiva ha bisogno di dotarsi di strutture di linguaggio dal carattere semplice e essenziale, di un principi costruttivo insieme rigoroso e sufficientemente elastico per accogliere senza forzature le emotività dei rispettivi individui e gruppi coinvolti. Tradotto nei termini specifici delle arti visive, queste strutture sono il risultato di un approfondito studio sia delle leggi che determinano le armonie della natura, sia delle regole progettuali, compositive ed esecutive presenti nelle diverse discipline artistiche. Quando l'artista ' individualmente e nel dialogo con altri colleghi anche a livello interdisciplinare ' riesce nel tentativo della costruzione del proprio impianto strutturale, egli sarà in seguito in grado di dispiegare il suo personale bagaglio emotivo in modo libero e naturale, riuscirà a dialogare con l'osservatore come un musicista che, mediante il dominio della propria voce e del suo strumento, riesce a trasmettere la sua emotività all'ascoltatore. L'operato pittorico di Nino De Luca, a mio personale giudizio, rappresenta un esempio riuscito e degno di nota per l'elaborazione di quel linguaggio emotivo artistico di cui dicevo e che proprio grazie a una rigorosa struttura giunge a una libera e insieme non invadente comunicazione con l'osservatore. I lavori di De Luca che qui ci interessano costituiscono la direttrice principale della sua ricerca e la loro struttura difatti è talmente semplice da poter essere descritta in un'unica breve frase. Si tratta di campiture di colore suddivise generalmente da una maglia di linee ortogonali disposte secondo vari schemi proporzionali, maggiormente con preminenza evidente della linea d'orizzonte. Questa è la struttura. Al suo interno, De Luca può ora sviluppare la sua gamma cromatica, veicolo dell'espressione emotiva, con ' torniamo a questa analogia ' la libertà rigorosa del pianista che muove le sue dita sulla tastiera del pianoforte. La peculiarità dell'orizzonte di unire in un'unica visione il reale e l'immaginario, il di qua e di là, l'immanenza e la trascendenza, il cielo e la terra, la figurazione e l'astrazione, gli apre quella infinità di variazioni contemporaneamente uniche e eternamente ripetute che si fanno metafora della vita stessa, purché l'artista abbia sia la fantasia creativa, sia la padronanza del mestiere pittorico per non ricadere né nella mera serialità, né nel gioco autistico con le proprie fissazioni. Credo che, fino a oggi, De Luca abbia camminato in modo attento e intelligente sul crinale tra i due abissi della maniacalità e della ripetitività sterile che entrambi insidiano perennemente l'equilibristico lavoro dell'artista, e ritengo che gli operati come il suo possano essere apprezzati come validi, onesti e appassionati contributi affinché l'emotività che muove l'anima possa trovarsi in sintonia con le prerogative della ragione nel comune sforzo incessante di costruire e di tutelare la civiltà. La creazione responsabile di vie atte a pervenire a una strutturazione più civile dell'emotività coinvolge la società intera e oltrepassa di gran lunga i ristretti confini dell'arte. Questo breve saggio, dunque, non intende esaltare in modo inappropriato la figura di un singolo artista che casualmente è di mia conoscenza e stima. Mi pare tuttavia giusto, senza giungere alle poco decorose esaltazioni fini a se stesse di singoli individui, non negare il nostro plauso a coloro che, a torto o a ragione, riteniamo svolgano bene la propria attività e di inserirli senza timori di esagerazione all'interno di riflessioni di carattere più generale in quanto ogni discorso teorico concernente gli esseri umani che non scende anche nella realtà dei singoli individui rimane necessariamente sospeso a mezz'aria, così come ogni presentazione di singoli individui senza collegamento sensato a tematiche più generali rimane senza scampo impaludato nell'autoreferenzialità. In questo senso, l'arte potrà di nuovo dare grandi contributi alla civiltà non appena ricomincerà a comprendere che l'artista lavora bene per se stesso quando lavora bene per gli altri, ed è per questa convinzione che ho voluto portare l'esempio del pittore Nino De Luca e della 'emotività strutturata' presente nelle sue opere. Roma, Agosto 2011 |